La mia incredulità non riguarda tanto la frase, che in certi contesti potrebbe effettivamente nascondere un atteggiamento coercitivo – del tipo: “Se non obbedisci, ti umilio, ti derido, magari ti picchio” (purtroppo succede, e lo sappiamo bene). Piuttosto, ciò che mi lascia perplesso è la sensazione che il perimetro di ciò che si può dire – specie per noi uomini – stia diventando sempre più stretto.
Intendiamoci: riflettere criticamente sui propri comportamenti è un esercizio utile (a patto di esserne capaci). Ma qui il punto non è la riflessione, bensì la crescente normativizzazione, ossia il proliferare di regole e prescrizioni: “Questo si può dire, questo no.” E queste prescrizioni, spesso, finiscono per tradursi in misure giuridiche. Tuttavia, viene da chiedersi: se questa regolamentazione è in costante aumento, perché i casi di violenza continuano a non diminuire?
Ecco allora che mi pongo due domande.
La prima: è possibile che la violenza sia un tratto costitutivo, biologico, dell’essere uomo? Attenzione, non sto dicendo che non possiamo farci niente – questa precisazione mi pare ovvia, ma meglio ribadire. È una questione indagata anche dalla neuroscienza: se il retroterra ideologico e giuridico che un tempo interpretava culturalmente la violenza di genere (ricordate il delitto d’onore) è quasi scomparso, perché questa violenza continua a manifestarsi?
La seconda: il patriarcato è ancora una categoria valida per interpretare queste realtà? La tesi è sfumata, dal momento che si dice: “La società patriarcale, in senso stretto, non esiste più, ma ne sopravvivono le scorie, i retaggi”. Forse. Ma accanto a questa ipotesi, personalmente ne avanzo un’altra: e se la violenza maschile fosse, almeno in parte, figlia anch’essa della costrittività dell’algoritmo, di quella macchina pervasiva che impone standard di bellezza femminili quasi irraggiungibili?